ARGONAUTI

 

Tao Chi'en ed Eliza Sommers misero piede per la prima volta a San Francisco alle due del pomeriggio di un martedì di aprile del 1850. A quell'epoca, migliaia di avventurieri vi avevano già transitato brevemente diretti ai giacimenti. Un vento ostinato rendeva difficile procedere, ma il giorno era limpido e poterono apprezzare il panorama della baia nella sua splendida bellezza. Tao Chi'en aveva un aspetto stravagante con la sua valigetta da medico, dalla quale non si separava mai, un fagotto sulla schiena, il cappello di paglia e il poncho di lana multicolore comprato da uno degli scaricatori messicani. In quella città, tuttavia, l'apparenza non contava granché. A Eliza tremavano le gambe, che non usava da due mesi, e soffriva il mal di terra come aveva sofferto il mal di mare, ma l'abbigliamento maschile le dava una libertà sconosciuta e non si era mai sentita tanto invisibile. Una volta ripresasi dalla sensazione di essere nuda, poté godersi la brezza che le si infilava nelle maniche della camicia e nei pantaloni. Abituata al carcere della sottoveste, ora respirava a pieni polmoni. Faceva molta fatica a trasportare la piccola valigia con i graziosi abitini che Miss Rose aveva preparato con le migliori intenzioni e, vedendola barcollare, Tao Chi'en gliela prese e se la mise in spalla. La coperta castigliana arrotolata sotto il braccio pesava tanto quanto la valigia, ma Eliza capì che non poteva abbandonarla perché di notte sarebbe stata il bene più prezioso. A capo chino, nascosta dietro il cappello di paglia, avanzava a stento nella spaventosa anarchia del porto. Il villaggio di Yerba Buena, fondato da una spedizione spagnola nel 1769, contava meno di cinquecento abitanti, ma appena si era sparsa la voce dell'oro erano iniziati a giungere gli avventurieri. Nel giro di pochi mesi quel quieto paesino si era svegliato con il nome di San Francisco e la sua fama aveva raggiunto perfino i paesi lontani. Per il momento non era ancora una vera città, ma solo un gigantesco accampamento di uomini di passaggio.

La febbre dell'oro non lasciò indifferente nessuno: fabbri, falegnami, maestri, medici, soldati, ricercati, predicatori, panettieri, rivoluzionari e docili matti di tutti i tipi si erano lasciati alle spalle famiglia e averi pur di attraversare mezzo mondo all'inseguimento dell'avventura. "Cercano l'oro e per strada perdono l'anima," aveva instancabilmente ripetuto il capitano Katz in ognuna delle brevi funzioni religiose che la domenica imponeva ai passeggeri e all'equipaggio dell'Emilia, ma nessuno gli aveva badato, tutti obnubilati dall'illusione di una ricchezza immediata che avrebbe cambiato la loro vita. Per la prima volta nella storia, l'oro si trovava sparpagliato per terra e senza padrone, gratuito e in abbondanza, a portata di mano di chiunque avesse deciso di raccoglierlo. Dalle rive più lontane arrivavano gli argonauti: europei in fuga da guerre, epidemie e tirannidi; yankee ambiziosi e coraggiosi; neri a caccia della Libertà; russi e abitanti dell'Oregon vestiti di pelli come gli indiani; messicani, cileni e peruviani; banditi australiani; contadini cinesi affamati che rischiavano la testa violando la proibizione imperiale di abbandonare la patria. Nei vicoli inzaccherati di San Francisco si mescolavano tutte le razze.

Le strade principali, costituite da ampi semicerchi i cui estremi toccavano la spiaggia, si incrociavano con rettilinei che scendevano dalle ripide colline e terminavano al molo, e alcuni erano tanto scoscesi che nemmeno i muli riuscivano a inerpicarsi. All'improvviso soffiava un vento di tempesta che sollevava mulinelli di polvere e sabbia, ma poco dopo l'aria si placava e il cielo tornava limpido. Esistevano già svariati edifici veri e propri e ce n'erano dozzine in costruzione, tra cui quelli che si annunciavano come futuri hotel di lusso, ma per il resto non si vedeva che un'accozzaglia di alloggi provvisori, baracche, casupole di lamiera, legno o cartone, tende di olona e tettoie di paglia. Le piogge dell'inverno appena passato avevano trasformato il molo in uno stagno, i pochi veicoli si impantanavano nel fango e bisognava posare delle assi per attraversare i canali di scolo pieni di spazzatura, di migliaia di bottiglie rotte e di altri avanzi. Non esistevano né canalizzazioni né fogne e i pozzi erano inquinati; il colera e la dissenteria facevano stragi, tranne fra i cinesi, che d'abitudine bevevano tè, e i cileni, cresciuti con l'acqua infetta del loro paese e pertanto immuni da qualsiasi batterio. L'eterogenea moltitudine brulicava in preda a una frenetica attività, spingendo e inciampando con materiali da costruzione, barili, casse, asini e carretti. Gli scaricatori cinesi tenevano in equilibrio i pesi alle estremità di pertiche senza preoccuparsi di chi colpivano al loro passaggio; i messicani, forti e pazienti, si caricavano sulla schiena l'equivalente del loro peso e salivano i pendii trottando; i malesi e gli hawaiani approfittavano di qualsiasi pretesto per dare inizio a una rissa; gli yankee si mettevano a capo di improvvisate attività commerciali eliminando chi li intralciava; i californiani, nati sul posto, esibivano con boria belle giacche ricamate, sproni d'argento e pantaloni aperti sui lati con una doppia fila di bottoni d'oro dalla vita agli stivali. Lo schiamazzo di zuffe o di incidenti si aggiungeva al rumore confuso di martelli, seghe e pale. Si sentiva sparare con raccapricciante frequenza, ma nessuno si scomponeva per un morto in più o in meno, quando invece il furto di una scatola di chiodi radunava immediatamente un gruppo di indignati cittadini disposti a farsi giustizia da sé. La proprietà valeva molto più della vita e qualsiasi ruberia oltre i cento dollari veniva pagata con la forca. Abbondavano le sale da gioco, i bar e i saloon, addobbati con immagini di donne nude, in mancanza di quelle in carne e ossa. Nei tendoni si vendeva di tutto, soprattutto liquori e armi, a prezzi esorbitanti perché nessuno aveva il tempo di mercanteggiare. I clienti pagavano quasi sempre in oro senza fermarsi a raccogliere la polvere che rimaneva attaccata ai piatti della bilancia. Tao Chi'en decise che la famosa Gum San, la Montagna Dorata della quale tanto aveva sentito parlare, era un inferno, e calcolò che con quei prezzi i suoi risparmi sarebbero serviti a ben poco e dato che l'unica moneta accettata era il metallo puro, anche il sacchetto di gioielli di Eliza sarebbe stato inutile.

Eliza si fece strada nella confusione come meglio poté, appiccicata a Tao Chi'en e riconoscente ai suoi abiti maschili, visto che di donne non se ne vedevano da nessuna parte. Le sette viaggiatrici dell'Emilia erano state portate a spalla in uno dei molti saloon, dove senz'altro avevano già iniziato a guadagnare i duecentosettanta dollari del biglietto che dovevano al capitano Vincent Katz. Tao Chi'en era venuto a sapere dagli scaricatori che la città era divisa in settori e che ogni nazionalità occupava un rione. Lo avevano avvertito di non avvicinarsi alla zona dei farabutti australiani che potevano attaccarli semplicemente per divertimento, e gli avevano indicato come raggiungere l'ammasso di tende e casupole dove vivevano i cinesi. Fu in quella direzione che iniziò a camminare.

"Come farò a trovare Joaquin in questa baraonda?" chiese Eliza, sentendosi sperduta e impotente.

"Se c'è un quartiere cinese, ci sarà anche quello cileno. Cercalo."

"Non ho intenzione di separarmi da te, Tao."

"Stasera torno alla nave," la avvertì lui.

"Perché? Non ti interessa l'oro?"

Tao Chi'en affrettò il passo e lei regolò il suo per non perderlo di vista. Così arrivarono al quartiere cinese - Little Canton, come veniva chiamato -, un paio di stradine insalubri dove lui si sentì immediatamente a casa perché non si vedeva una sola faccia da fan güey, l'aria era impregnata dei deliziosi aromi della cucina del suo paese e si sentivano parlare diversi dialetti, soprattutto il cantonese. Per Eliza, invece, fu come sbarcare su un altro pianeta, non capiva una sola parola e le sembrava che fossero tutti furibondi per gesticolare gridando a quel modo. Neanche lì vide delle donne, ma Tao le indicò un paio di finestrelle sprangate da cui si affacciavano dei visi disperati. Era da due mesi che non stava con una donna e queste lo stavano chiamando, ma conosceva troppo bene le stragi provocate dalle malattie veneree per correre un rischio del genere con una di quelle donne di basso rango. Erano contadine comprate per qualche moneta e portate lì dalle più remote province della Cina. Pensò a sua sorella, venduta dal padre, e un'ondata di nausea lo fece ripiegare su se stesso.

"Cosa c'è, Tao?"

"Brutti ricordi... Queste ragazze sono schiave."

"Ma non hanno detto che in California non ci sono schiavi?"

Entrarono in un ristorante, segnalato con le tradizionali strisce di stoffa gialla, dotato di un lungo tavolone gremito di uomini che, gomito a gomito, divoravano in fretta il cibo. Il rumore delle bacchette contro le scodelle e la conversazione ad alta voce erano musica per le orecchie di Tao Chi'en. Attesero in piedi in doppia fila fino a quando riuscirono a sedersi. Non si trattava di scegliere, ma di approfittare di ciò che si trovava a portata di mano. Bisognava essere abili e afferrare il piatto al volo prima che qualcuno più lesto lo intercettasse, ma Tao riuscì a prenderne uno per Eliza e uno per sé. Lei osservò con diffidenza un liquido verdastro in cui galleggiavano filamenti pallidi e molluschi gelatinosi. Si vantava di riconoscere qualsiasi ingrediente dall'aroma, ma quel piatto non le parve nemmeno commestibile, aveva l'aspetto di acqua di stagno abitata da girini, anche se presentava il vantaggio di non esigere bacchette per essere consumato perché lo si poteva sorbire direttamente dalla scodella. La fame ebbe la meglio sulla diffidenza e si decise ad assaggiarlo, mentre alla sue spalle una fila di avventori impazienti le gridava di sbrigarsi. Il piatto risultò essere delizioso e molto volentieri ne avrebbe preso un altro, ma Tao Chi'en non le diede il tempo e prendendola per un braccio la riportò fuori. Lo seguì per i negozi del quartiere in cui reintegrò i prodotti medicinali della valigetta e parlò con il paio di erboristi cinesi che operavano in città, e poi in una bisca delle molte che c'erano nel quartiere. Si trattava di un edificio di legno con pretese lussuose, decorato da dipinti di donne voluttuose mezze nude. L'oro in polvere veniva pesato prima di essere cambiato in monete, a sedici dollari l'oncia, o semplicemente si depositava l'intera borsa sulla tavola. Americani, francesi e messicani costituivano la maggior parte dei clienti, ma c'erano anche avventurieri provenienti dalle Hawaii, dal Cile, dall'Australia e dalla Russia. I giochi più popolari erano il monte messicano, il lasquenet e il vingtetun. Siccome i cinesi preferivano il fan tan e scommettevano solo gli spiccioli, non erano ben accolti ai tavoli dove si facevano puntate alte. Non si vedeva un solo nero ai tavoli, anche se ve n'erano che suonavano o servivano; più tardi dissero loro che se i neri entravano nei bar o nelle bische ricevevano una consumazione gratis, ma poi dovevano andarsene o venivano cacciati fuori a colpi di pistola. C'erano tre donne nel salone, due giovani messicane dagli occhi vivaci, vestite di bianco e intente a fumarsi una sigaretta dietro l'altra, e una francese con un bustino aderente e un trucco pesante, più matura, ma graziosa. Giravano per i tavoli incitando a giocare e a bere e sparivano abbastanza spesso al braccio di qualche cliente dietro un pesante tendaggio di broccato rosso. Tao Chi'en venne a sapere che chiedevano un'oncia d'oro per un'ora di compagnia nel bar e diverse centinaia di dollari per passare l'intera nottata con un uomo solo, ma la francese era più cara e non trattava con neri e cinesi.

 

 

Disorientata nel suo ruolo di ragazzo orientale, Eliza si sedette esausta in un angolo mentre Tao conversava qua e là informandosi sui particolari relativi all'oro e alla vita in California. Protetto dal ricordo di Lin, Tao Chi'en riusciva a sopportare più facilmente la tentazione delle donne che non quella del gioco. Il suono delle fiche del fan tan e dei dadi sulla superficie del tavolo lo chiamava con voce da sirena. La vista del mazzo di carte in mano ai giocatori lo faceva sudare, ma riuscì ad astenersi, corroborato dalla convinzione che, se fosse venuto meno alla promessa, la buona sorte l'avrebbe abbandonato per sempre. A distanza di diversi anni, dopo infinite avventure, Eliza gli chiese a quale buona sorte facesse riferimento e lui, senza pensarci su due volte, le rispose "quella di essere vivo e di averti conosciuta". Nel pomeriggio Tao venne a sapere che i giacimenti si trovavano presso il fiume Sacramento, l'American River e il San Joaquin e nelle loro centinaia di ramificazioni, ma le cartine non erano affidabili e le distanze spaventose. L'oro facile della superficie iniziava a scarseggiare. Certo, non mancavano minatori fortunati che inciampavano in pepite grosse come scarpe, ma la maggior parte doveva accontentarsi di un pugno di polvere guadagnata con uno sforzo smisurato. Si parlava molto dell'oro, gli dissero, ma poco della fatica con cui lo si ricavava. C'era bisogno di un'oncia al giorno per ottenere un qualche guadagno, sempre ammesso che si fosse disposti a fare una vita da cani, perché i prezzi erano capricciosi e l'oro se ne andava in un batter d'occhio. Invece i mercanti e gli usurai si arricchivano, come un loro compatriota che si era dedicato al lavaggio della biancheria e che in pochi mesi si era costruito una solida casa e stava pensando di tornare in Cina, di comprarsi varie spose e di dedicarsi alla produzione di figli maschi; o un altro che prestava soldi in una bisca al dieci per cento d'interessi all'ora, vale a dire a più dell'ottantasettemila per cento all'anno. Gli vennero confermate storie favolose di pepite enormi, di polvere mescolata in abbondanza alla sabbia, di filoni di quarzo, di muli che staccavano una pietra con le zampe e sotto appariva un tesoro, ma per diventare ricchi erano necessari lavoro e fortuna. Agli yankee mancava la pazienza, non sapevano lavorare in squadra e venivano sopraffatti dalla disorganizzazione e dall'avidità. Messicani e cileni si intendevano di miniere, ma avevano le mani bucate, quelli dell'Oregon e i russi perdevano tempo a litigare e a bere. I cinesi, invece, per quanto miseri fossero i loro averi, riuscivano a guadagnare perché erano frugali, non si ubriacavano e lavoravano come formiche diciotto ore al giorno senza far pause né lamentarsi. I fan güey erano irritati con i cinesi per il loro successo, li misero in guardia, per cui era necessario dissimulare, farsi passare per tonti, non provocarli o l'avrebbero pagata cara, come toccava agli orgogliosi messicani. Sì, li informarono, c'era un accampamento di cileni; restava un po' ai margini della città, nella punta a destra, e si chiamava Cilecito, ma ormai era troppo tardi per avventurarsi da quelle parti accompagnato solo da quel fratello ritardato.

"Io torno alla nave," annunciò Tao Chi'en a Eliza quando uscirono dalla bisca.

"Ho le vertigini, come se stessi per cadere."

"Sei stata molto ammalata. Hai bisogno di mangiar bene e di riposare."

"Non posso fare tutto ciò da sola, Tao. Per favore, aspetta ad andartene..."

"Ho firmato un contratto, il capitano mi farà cercare."

"E da chi? Tutte le barche sono state abbandonate. Non rimane nessuno a bordo. Quel capitano potrà pure sgolarsi ma nessuno dei suoi marinai rientrerà."

"E adesso cosa faccio con lei?" si chiese Tao Chi'en ad alta voce in cantonese. Il loro accordo scadeva a San Francisco, ma non se la sentiva di abbandonarla al suo destino in quel luogo. Era in trappola, perlomeno fino a quando Eliza non si fosse sentita più in forze, si fosse messa in contatto con qualche cileno o avesse rintracciato l'alloggio di quel suo sfuggente fidanzato. Non sarebbe stato difficile, immaginò. Per quanto San Francisco sembrasse confusa, per i cinesi non c'erano segreti in nessun luogo, poteva benissimo aspettare fino al giorno successivo e accompagnarla a Cilecito. Il buio era calato dando a quel posto un aspetto tetro. Le casupole erano quasi tutte di olona e le lampade al loro interno le rendevano trasparenti e luminose come diamanti. Le torce e i falò per la strada e la musica delle case da gioco contribuivano a dare un senso di irrealtà. Tao Chi'en cercò alloggio per la notte e s'imbatté in un grande capannone di circa venticinque metri di lunghezza per otto di larghezza, fatto di tavole e placche metalliche recuperate dalle barche incagliate e coronato da un'insegna di hotel. All'interno si trovavano due piani di cuccette sopraelevate, semplici mensole di legno su cui si poteva sdraiare un uomo rannicchiato, con un bancone in fondo in cui si vendevano liquori. Non esistevano finestre e l'aria entrava unicamente dalle fessure tra le placche delle pareti. Con un dollaro ci si guadagnava il diritto a pernottare, portandosi la biancheria per il letto. I primi arrivati occupavano le cuccette, gli altri si accomodavano a terra, ma a loro non le diedero, anche se ce n'erano di libere, perché erano cinesi. Si buttarono a terra usando il bagaglio come cuscino, protetti unicamente dal poncho e dalla coperta castigliana. Presto il locale si riempì di uomini di diverse razze e aspetto che si sdraiavano uno di fianco all'altro in strette file, vestiti e con le armi alla mano. Il pestilenziale odore di sudiciume e di effluvi organici, sommato al russare e alle voci alterate di quanti si perdevano nei loro incubi, rendevano difficile il sonno, ma Eliza era talmente stanca che non si rese conto del trascorrere delle ore. Si svegliò all'alba tremando per il freddo raggomitolata contro la schiena di Tao Chi'en e fu allora che scoprì il suo profumo di mare. Sulla nave si confondeva con la distesa d'acqua che li circondava, ma quella notte capì che era la fragranza peculiare del corpo di quell'uomo. Chiuse gli occhi, si strinse ancora di più a lui e si riaddormentò immediatamente.

Il giorno successivo partirono alla ricerca di Cilecito, che lei riconobbe subito perché una bandiera cilena sventolava tronfia in cima a un palo e perché la maggior pane degli uomini portava i maulinos, tipici cappelli a forma di cono. Occupava all'incirca otto o dieci isolati ed era pieno di gente, tra cui donne e bambini che avevano viaggiato con gli uomini, tutta indaffarata in qualche lavoro o attività. Gli alloggi erano costituiti da tende, capanne e casupole di assi circondate da un groviglio di utensili e spazzatura; c'erano anche ristoranti, hotel improvvisati e bordelli. Si potevano stimare in un paio di migliaia i cileni stabilitisi nel quartiere, ma nessuno li aveva contati e in realtà si trattava solo di un luogo di transito per chi era appena arrivato. Eliza si rallegrò quando sentì la lingua del suo paese e vide un'insegna su una malridotta tenda di olona che annunciava peguenes e chunchules. Si avvicinò e, dissimulando l'accento cileno, ordinò una porzione di questi ultimi. Tao Chi'en rimase a guardare quello strano alimento, servito, in mancanza di piatti, in un pezzo di carta di giornale, senza riuscire a capire cosa diavolo fosse. Eliza gli spiegò che si trattava di trippa di maiale fritta nello strutto.

"Ieri mi sono mangiata la tua zuppa cinese. Oggi tu ti mangi i miei chunchules cileni," gli ordinò.

"Come mai parlate spagnolo, cinesi?" inquisì gentilmente il venditore.

"Il mio amico non lo parla; io sì perché sono stato in Perù," replicò Eliza.

"E cosa cercate da queste parti?"

"Cerchiamo un cileno che si chiama Joaquin Andieta."

"E perché?"

"Abbiamo un messaggio da dargli. Lo conosce?"

"Da qui negli ultimi mesi è passata molta gente. Nessuno si ferma più di qualche giorno; se ne vanno subito ai giacimenti. Alcuni tornano, altri no."

"E Joaquin Andieta?"

"Non mi ricordo, ma vado a chiedere."

Eliza e Tao Chi'en si sedettero a mangiare all'ombra di un pino. Venti minuti dopo il venditore di cibo tornò accompagnato da un uomo dall'aspetto di indiano del Nord, gambe corte e spalle ampie, il quale disse che Joaquin Andieta era partito in direzione dei filoni di Sacramento almeno un paio di mesi prima, anche se lì nessuno teneva d'occhio il calendario o controllava il girovagare altrui.

"Andiamo a Sacramento, Tao," decise Eliza non appena si furono allontanati da Cilecito.

"Ancora non puoi viaggiare. Ti devi rimettere un po'."

"Riposerò là, quando l'avrò trovato."

"Preferisco tornare indietro con il capitano Katz. La California non fa per me."

"Ma cosa ti succede? Hai orzata al posto del sangue? Sulla barca non è rimasto nessuno, tranne quel capitano con la sua Bibbia. Tutti vanno in cerca d'oro e tu invece pensi di continuare a fare il cuoco per uno stipendio da due soldi!"

"Non credo alla fortuna facile. Voglio una vita tranquilla."

"Va bene; se non è l'oro, ci sarà qualcos'altro che ti possa interessare..."

"Imparare."

"Imparare cosa? Sai già molto."

"Ho ancora tutto da imparare!"

"Allora sei arrivato nel posto giusto. Non sai niente di questo paese. Qui c'è bisogno di medici. Quanti uomini credi che ci siano nelle miniere? Migliaia! E hanno tutti bisogno di un dottore! Questa è la terra delle opportunità, Tao. Vieni con me a Sacramento. E poi, se non vieni con me, non andrò molto lontano..."

 

 

Per un prezzo ridicolo, date le penose condizioni del mezzo, Tao Chi'en ed Eliza si imbarcarono per il Nord, navigando per l'ampia baia di San Francisco. La barca era zeppa di viaggiatori muniti dei loro complicati attrezzi per l'estrazione, e nessuno riusciva a muoversi in quello spazio ridotto, stipato di casse, utensili, ceste e sacchi di provviste, polvere da sparo e armi. Il capitano e il secondo erano due yankee che, nonostante il pessimo aspetto, non lesinavano sugli scarsi alimenti e perfino sulle loro bottiglie di liquore. Tao Chi'en trattò con loro il prezzo del biglietto di Eliza; a lui permisero invece di barattare il viaggio con i suoi servizi di marinaio. I passeggeri, tutti armati di grosse pistole alla cintura, oltre che di coltelli e rasoi, durante il primo giorno praticamente non si rivolsero la parola, se non per insultarsi per qualche gomitata o qualche calcio, inevitabili in quel caos. All'alba del secondo giorno, dopo una lunga notte fredda e umida trascorsa all'ancora nei pressi della costa, data l'impossibilità di navigare al buio, si sentivano tutti circondati da nemici. Le barbe incolte, la sporcizia, il cibo abominevole, le zanzare, il vento e la corrente contraria contribuivano a irritare gli animi. Tao Chi'en, l'unico senza piani né mete, appariva perfettamente sereno e quando non doveva combattere con la vela ammirava l'incantevole panorama della baia. Eliza, invece, era disperata nel suo ruolo di sordomuto tonto. Tao Chi'en l'aveva sbrigativamente presentata come fratello minore ed era riuscito a sistemarla in un angolo abbastanza protetto dal vento, dove lei era rimasta così quieta e silenziosa che poco dopo nessuno si ricordava più della sua presenza. La sua coperta castigliana stillava acqua, lei tremava dal freddo e aveva le gambe addormentate, ma la rincuorava l'idea di avvicinarsi minuto dopo minuto a Joaquin. Si toccava il petto dove erano nascoste le lettere d'amore e in silenzio le recitava a memoria. E terzo giorno i passeggeri avevano perso gran parte dell'aggressività e giacevano prostrati, coi vestiti zuppi, un tantino ubriachi e parecchio demoralizzati.

La baia risultò ben più ampia di quanto pensassero, le distanze segnate sulle loro patetiche cartine non corrispondevano per nulla a quelle reali, e quando credettero di essere giunti a destinazione scoprirono che c'era una seconda baia da attraversare, la baia di San Pablo. Sulle rive si intravedevano accampamenti e scialuppe gremite di gente e di mercanzie, e dietro a esse fitti boschi. Ma nemmeno lì si concluse il viaggio, perché prima dovettero passare attraverso un canale impetuoso per entrare in una terza baia, quella di Suisun, in cui la navigazione si fece ancora più lenta e difficile, e poi in un fiume angusto e profondo che li condusse fino a Sacramento. Finalmente si trovavano vicino alla terra in cui era stata scoperta la prima scheggia d'oro. Quell'insignificante frammento, dalle dimensioni di un'unghia femminile, aveva provocato un'incontrollabile invasione, aveva cambiato il volto della California e l'anima della nazione nordamericana, come avrebbe avuto modo di scrivere pochi anni dopo Jacob Todd, divenuto giornalista. "Gli Stati Uniti sono stati fondati da pellegrini, pionieri e umili immigrati, sostenuti da un'etica del lavoro duro e del coraggio di fronte alle avversità. L'oro ha tirato fuori il peggio del carattere americano: l'avidità e la violenza."

Il capitano spiegò loro che la città di Sacramento era sbocciata nell'ultimo anno, dalla sera alla mattina. Il porto era affollato dalle più diverse imbarcazioni, le strade erano ben tracciate, c'erano case ed edifici in legno, negozi, una chiesa e un buon numero di bische, bar e bordelli, e tuttavia sembrava lo scenario di un naufragio per la gran quantità di sacchi, finimenti, attrezzi e ogni sorta di rifiuti seminati a terra dai minatori che avevano abbandonato tutto per recarsi ai filoni. Grandi uccellacci neri volavano sulla spazzatura e per le mosche era festa grande. Eliza calcolò che in un paio di giorni avrebbe potuto percorrere il paese casa per casa: trovare Joaquin Andieta non sarebbe stato difficile. I passeggeri del barcone, che la prossimità del porto aveva reso vivaci e amichevoli, condividevano le ultime sorsate di liquore, si congedavano a grandi pacche e cantavano in coro a proposito di una certa Susanna, per lo stupore di Tao Chi'en che non riusciva a farsi una ragione di una tanto repentina trasformazione. Lui ed Eliza sbarcarono prima degli altri per via del loro bagaglio ridotto e si diressero senza esitare verso la zona cinese, dove riuscirono a procacciarsi cibo e alloggio sotto un tendone di tela cerata. Eliza non poteva seguire le conversazioni in cantonese e l'unica cosa che desiderava era raccogliere informazioni sul suo innamorato, ma Tao Chi'en le ricordò che doveva tacere e le chiese di pazientare e mantenere la calma. Quella stessa notte allo zhong yi toccò curare la spalla slogata di un compatriota; rimise l'osso al suo posto e si conquistò immediatamente il rispetto dell'accampamento.

La mattina successiva i due iniziarono le ricerche di Joaquin Andieta. Verificarono che i compagni di viaggio erano già pronti per intraprendere il cammino verso i giacimenti; alcuni erano riusciti a trovare dei muli per trasportare i bagagli, ma la maggior parte di loro viaggiava a piedi e si era sbarazzata di buona parte dei beni. Girarono l'intero paese senza trovare traccia di chi cercavano, ma ad alcuni cileni sembrava di ricordare qualcuno con quel nome, passato di lì uno o due mesi prima. Consigliarono loro di risalire il fiume; lì forse l'avrebbero incontrato, era tutta questione di fortuna. Un mese era un'eternità. Nessuno poteva ricordate chi era stato lì il giorno prima, i nomi e i destini altrui non avevano interesse. L'unica ossessione era l'oro.

"Cosa faremo adesso, Tao?"

"Lavoreremo. Senza soldi non si può fare niente," replicò lui, gettandosi in spalla alcuni pezzi di stoffa trovati tra i rifiuti abbandonati.

"Non posso aspettare! Devo trovare Joaquin! Di soldi ne ho."

"Soldi cileni. Non serviranno a molto..."

"E i gioielli che mi sono rimasti? Qualcosa varranno pure..."

"Tienili da conto. Qui valgono poco. Devo lavorare per potermi comprare un mulo. Mio padreandava di paese in paese a curare la gente. Mio nonno anche. Posso farlo anch'io, ma qui le distanze sono grandi. Ho bisogno di un mulo."

  "Un mulo? Ne abbiamo già uno: tu. Testone come sei."

"Meno testone di te."

Recuperarono dei pali e alcune assi, chiesero in prestito qualche attrezzo e riuscirono a mettere insieme un alloggio, con la stoffa che fungeva da tetto, una gracile casupola, pronta a crollare al primo colpo di vento forte, ma che almeno li poteva proteggere dalla rugiada notturna e dalle piogge primaverili. Era corsa voce della perizia di Tao Chi'en e presto iniziarono ad accorrere pazienti cinesi, che si fecero garanti dello straordinario talento di quello zhong yi, e poi messicani e cileni e infine qualche americano ed europeo. Quando si venne a sapere che Tao Chi'en era abile quanto i tre dottori bianchi e si faceva pagare di meno, in molti vinsero la ripugnanza nei confronti dei "celestiali" e decisero di provare la scienza asiatica. C'erano giorni in cui Tao Chi'en era talmente occupato da doversi far aiutare da Eliza. La affascinava vedere le sue mani delicate ed esperte prendere il battito cardiaco nelle braccia o nelle gambe, palpare il corpo degli ammalati come se li accarezzasse, inserire gli aghi in punti misteriosi che solo lui sembrava conoscere. Quanti anni aveva quell'uomo? Una volta glielo chiese e lui replicò che, contando anche tutte le reincarnazioni, sicuramente ne aveva tra i sette e gli ottomila. A occhio Eliza gliene dava una trentina, anche se a volte, quando rideva, sembrava più giovane di lei. Tuttavia quando si chinava su un malato in concentrazione assoluta, acquisiva l'aspetto venerando di una tartaruga; allora era facile credere che il suo fardello fosse di molti secoli. Lo osservava ammirata mentre esaminava l'urina dei suoi pazienti in un bicchiere e, dall'odore e dal colore, era in grado di diagnosticare mali occulti, o quando studiava le pupille con una lente d'ingrandimento per dedurre cosa mancava o cosa eccedeva nell'organismo. A volte si limitava a collocare le mani sul ventre o sul capo del paziente, chiudeva gli occhi e dava l'impressione di perdersi in un lungo sogno.

"Cosa stavi facendo?" gli chiedeva poi Eliza.

"Sentivo il suo dolore e gli trasmettevo energia. L'energia negativa produce sofferenze e malattie; quella positiva può curare."

"E com'è questa energia positiva, Tao?"

"Come l'amore: calda e luminosa."

Estrarre pallottole e curare ferite da coltello erano interventi di routine ed Eliza perse la ripugnanza per il sangue e imparò a cucire la carne umana con la stessa tranquillità con cui prima ricamava le lenzuola della dote. La pratica chirurgica svolta insieme all'inglese Ebanizer Hobbs si rivelò di grande utilità per Tao. In quella terra infestata da serpi velenose non mancava mai chi ne veniva punto e giungeva, gonfio e blu, portato a spalle dai compagni. Le acque inquinate diffondevano democraticamente il colera, epidemia per la quale non si conosceva un rimedio, nonché altre malattie dai sintomi molto sgradevoli, ma non sempre fatali. Tao Chi'en incassava modiche tariffe comunque sempre in anticipo, perché l'esperienza gli suggeriva che chi è spaventato paga senza batter ciglio, mentre chi ha potuto tirare un sospiro di sollievo mercanteggia. Al momento di riscuotere, gli si presentava l'anziano precettore con espressione di rimprovero, ma Tao lo scacciava. "Maestro, non posso permettermi il lusso di essere generoso in queste circostanze," borbottava. Le parcelle non prevedevano l'anestesia e chi desiderava il conforto delle droghe o degli aghi doveva pagare un supplemento. Faceva un'eccezione per i ladri, che, dopo un processo sommario, erano sottoposti a frustate o al taglio delle orecchie: i minatori si vantavano della loro giustizia rapida e nessuno era disposto a finanziare e a vigilare una prigione.

"Perché dai criminali non ti fai pagare?" gli chiese Eliza.

"Perché preferisco che mi debbano un favore," replicò lui.

 

 

Tao Chi'en sembrava deciso a stabilirsi lì. Non lo aveva detto alla sua amica, ma desiderava non muoversi più per dare il tempo a Lin di trovarlo. Erano diverse settimane che sua moglie non si metteva in contatto con lui. Eliza, invece, contava le ore, ansiosa di proseguire il viaggio, e a mano a mano che trascorrevano i giorni si sentiva dominata da sentimenti contraddittori nei confronti del compagno d'avventura. Gli era riconoscente per come la proteggeva e si prendeva cura di lei; sempre attento alla sua buona alimentazione, la copriva di notte, le somministrava erbe e applicava aghi per rafforzarle il qi, come diceva; ma era irritata dalla sua calma, che interpretava come mancanza di audacia. L'espressione serena e il facile sorriso di Tao Chi'en a volte la catturavano e altre la indisponevano. Non capiva perché non sentisse minimamente la tentazione di far fortuna nelle miniere, mentre tutti quanti intorno a lui, e in particolare i suoi compatrioti cinesi, non pensavano ad altro.

"Neanche a te interessa l'oro," replicò imperturbabile quando lei glielo rimproverò.

"Io sono venuta qui per un altro motivo. E tu perché sei venuto?"

"Perché ero marinaio. Non avevo pensato di fermarmi qui fino a quando tu non me l'hai chiesto."

 

"Non sei un marinaio, sei un medico."

"Qui posso tornare a essere medico, almeno per un po'. Avevi ragione, c'è molto da imparare in questo luogo."

Questi erano i progetti di Tao in quei giorni. Si mise in contatto con gli indigeni per esaminare le erbe dei loro sciamani. Si trattava di miserabili gruppi di indiani vagabondi, ricoperti da lerce pellicce di coyote e cenci europei, che nella corsa all'oro avevano perso tutto. Andavano di qua e di là con le loro donne stanche e i loro bambini affamati, cercando di lavare l'oro dei fiumi nelle fini ceste di vimini, ma appena trovavano un luogo adatto venivano cacciati a suon di pallottole. Quando venivano lasciati in pace, costruivano i loro piccoli villaggi di capanne o di tende e si stabilivano fino a quando non erano obbligati a partire di nuovo. Familiarizzarono con il cinese che ricevevano mostrandogli rispetto perché lo consideravano un medicine man - un uomo saggio - e amavano condividere il loro sapere. Eliza e Tao Chi'en si sedevano con loro in cerchio intorno a una cavità in cui cucinavano sulle pietre calde una pappina di ghiande, o arrostivano bacche e locuste che a Eliza sembravano deliziose. Poi fumavano, conversando in un misto di inglese, di segni e delle poche parole della lingua dei nativi che avevano imparato. In quei giorni sparirono alcuni minatori yankee e, benché i loro corpi non fossero stati ritrovati, i loro compagni accusarono gli indiani di averli assassinati e per rappresaglia presero d'assalto un villaggio, fecero quaranta prigionieri tra donne e bambini e come monito giustiziarono sette uomini.

"Se trattano così gli indiani, che sono i padroni di questa terra, i cinesi sicuramente li trattano molto peggio, Tao. Devi rendevi invisibile, come me," disse Eliza con terrore quando venne a sapere cosa era successo.

Ma Tao Chi'en non aveva tempo per imparare i trucchi dell'invisibilità, era troppo occupato a studiare le piante. Compiva lunghe escursioni per raccoglierne degli esemplari da confrontare con quelle che si usavano in Cina. Affittava un paio di cavalli o camminava a piedi per miglia e miglia sotto un sole inclemente, portandosi Eliza come interprete, per raggiungere i ranch dei messicani che vivevano in quella regione da generazioni e ne conoscevano la flora e la fauna. Avevano da poco perso la California nella guerra con gli Stati Uniti e quei grandi ranch, che prima ospitavano centinaia di lavoratori a giornata in un sistema comunitario, iniziavano a cadere a pezzi. I trattati tra i due paesi erano rimasti sulla carta. All'inizio i messicani, esperti di estrazioni, insegnarono a chi era giunto da poco i procedimenti per ottenere l'oro, ma ogni giorno arrivavano sempre più forestieri a invadere un territorio che sentivano loro. Nella pratica, i gringo li disprezzavano, come facevano con tutti i rappresentanti di qualsiasi altra razza. Prese avvio un'instancabile persecuzione contro gli ispani, cui veniva negato il diritto di sfruttare le miniere in quanto non americani, mentre venivano accettati come tali i farabutti australiani e gli avventurieri europei. Migliaia di braccianti senza lavoro tentavano la fortuna nelle miniere, ma, quando la persecuzione dei gringo si faceva intollerabile, emigravano a sud o si trasformavano in malviventi. In alcune delle rustiche case delle famiglie rimaste, Eliza poteva trascorrere un po' di tempo in compagnia femminile, un lusso raro che, in quei pochi momenti, le restituiva la tranquilla felicità dei bei tempi nella cucina di Mama Fresia. Erano le uniche occasioni in cui poteva evadere dal mutismo obbligato e parlare la sua lingua. Quelle madri forti e generose, che sgobbavano gomito a gomito con gli uomini nei lavori più pesanti, provate dalla fatica e dall'indigenza, si commuovevano davanti a quel ragazzo cinese dall'aspetto così fragile, stupite dal fatto che parlasse lo spagnolo come una di loro. Le consegnavano volentieri i segreti della natura usati da secoli per alleviare i più diversi malanni e, già che c'erano, le ricette dei loro piatti saporiti, che lei annotava sui suoi quaderni, certa che prima o poi sarebbero tornate utili. Nel frattempo lo zhong yi ordinò a San Francisco le medicine occidentali che l'amico Ebanizer Hobbs gli aveva insegnato a usare a Hong Kong. Ripulì anche un pezzo di terra vicino alla capanna, lo recintò per difenderlo dai cervi e piantò le erbe fondamentali per la sua professione.

"Santo cielo, Tao! Pensi di fermarti qui fino a quando non saranno sbocciati questi rachitici germogli?" protestava Eliza, esasperata alla vista di quei talli sbiaditi e di quelle foglie gialle, senza ottenere più che un gesto vago di risposta.

Sentiva che ogni giorno trascorso l'allontanava dal suo destino, che Joaquin Andieta si addentrava sempre più in quella regione sconosciuta, forse in direzione delle montagne, mentre lei perdeva il suo tempo a Sacramento facendosi passare per il fratello scemo di un guaritore cinese. Era solita affibbiare a Tao Chi'en i peggiori epiteti, ma aveva il buon gusto di farlo in castigliano, esattamente come di certo faceva lui quando le rivolgeva la parola in cantonese. Avevano perfezionato i segni per comunicare davanti agli altri senza parlare e la stretta convivenza li aveva portati ad assomigliarsi tanto che nessuno metteva in dubbio la loro parentela. Se non erano occupati con qualche paziente, andavano in giro per il porto e per negozi, a chiacchierare e a indagare su Joaquin Andieta. Eliza cucinava e ben presto Tao Chi'en si abituò ai suoi piatti, anche se di tanto in tanto scappava alle mense cinesi della città, dove poteva ingollare tutto quello che la pancia riusciva a contenere per un paio di dollari, una bazzecola, se si teneva conto che una cipolla costava un dollaro. Davanti agli altri comunicavano a gesti, ma da soli lo facevano in inglese. Malgrado gli occasionali insulti nelle due lingue, trascorrevano la maggior parte del tempo lavorando fianco a fianco come buoni compagni e occasioni per ridere certo non mancavano. Tao era sorpreso di poter condividere con Eliza momenti di buon umore, nonostante gli inevitabili inciampi della lingua e le diversità culturali. E comunque erano proprio queste differenze a strappare le risate: non riusciva a credere che una donna facesse e dicesse tali esagerazioni. La osservava con curiosità e inconfessabile tenerezza, spesso ammutoliva di ammirazione per lei, le attribuiva il coraggio di un guerriero, ma quando la vedeva cedere gli sembrava una bambina ed era vinto dal desiderio di proteggerla.

Anche se era aumentata un po' di peso e aveva un colorito migliore, era ancora debole, era evidente. Non appena il sole tramontava, iniziava ad assopirsi, si avvolgeva nella coperta e si addormentava e lui si sdraiava al suo fianco. Si abituarono a tal punto a queste ore di intimità in cui respiravano all'unisono che i corpi si adattavano da soli nel sonno e se uno si girava, anche l'altro lo faceva per non separarsi. A volte si svegliavano incollati tra le coperte, avvinti. Se era lui a destarsi per primo, godeva di quegli attimi che gli riportavano alla memoria le ore felici insieme a Lin, immobile, per impedirle di cogliere il suo desiderio. Non sospettava che la stessa cosa succedesse anche a Eliza, grata a quella presenza maschile che le consentiva di immaginare come sarebbe stata la sua vita con Joaquin Andieta, se avesse avuto maggior fortuna. Nessuno dei due alludeva mai a quanto succedeva di notte, come fosse un'esistenza parallela della quale non erano coscienti. Non appena si vestivano, la segreta malia di quegli abbracci spariva completamente e tornavano a essere due fratelli. In rare occasioni Tao Chi'en si allontanava da solo per misteriose escursioni notturne dalle quali rientrava con discrezione. Eliza si asteneva dall'indagare perché le bastava annusarlo: era stato con una donna, poteva persino distinguere i profumi dolciastri delle messicane. Lei rimaneva sepolta sotto la coperta, a tremare nel buio e a vigilare sul minimo suono, impugnando un coltello, spaventata, chiamandolo con il pensiero. Non sapeva giustificare questo desiderio di piangere che la invadeva, quasi fosse stata tradita. Comprendeva vagamente che forse gli uomini erano diversi dalle donne; per quel che la riguardava, non provava il minimo bisogno di sesso. I casti abbracci notturni erano sufficienti a placare la sua smania di compagnia e di tenerezza e nemmeno quando pensava al suo antico amante sperimentava l'urgenza dei tempi della stanza degli armadi. Non sapeva se in lei amore e desiderio fossero la stessa cosa e se in mancanza del primo il secondo non potesse insorgere, o se la lunga malattia in nave avesse distrutto qualcosa di fondamentale nel suo corpo. Una volta aveva osato chiedere a Tao se poteva ancora avere figli, perché per diversi mesi non aveva più mestruato, e lui le aveva assicurato che non appena avesse recuperato forze e salute sarebbe tornata alla normalità, e che proprio a quello scopo le applicava i suoi aghi. Quando l'amico scivolava silenziosamente al suo fianco dopo le scappatelle, lei fingeva di dormire profondamente, anche se in realtà rimaneva sveglia per ore, offesa da quell'odore di un'altra donna che si era installato tra loro. Da quando erano sbarcati a San Francisco, era tornata al pudore al quale Miss Rose l'aveva educata. Tao Chi'en l'aveva vista nuda durante le settimane della traversata e la conosceva esternamente e intimamente, ma comprese le sue ragioni e non fece domande, limitandosi a indagare sul suo stato di salute. Perfino quando le collocava gli aghi stava ben attento a non urtare la sua ritrosia. Non si svestivano in presenza l'uno dell'altro e vigeva un tacito accordo per rispettare l'intimità nell'uso della fossa dietro alla capanna che serviva da latrina, ma per il resto si condivideva tutto, dal denaro ai vestiti.

Molti anni dopo, riguardando le annotazioni relative a quell'epoca, Eliza si sarebbe chiesta con stupore perché nessuno dei due volesse ammettere l'indubitabile attrazione che provava, perché si rifugiassero nel pretesto del sonno per toccarsi e durante il giorno ostentassero freddezza. Avrebbe concluso che l'amore per qualcuno di un'altra razza pareva loro impossibile, convinti com'erano che nel mondo non ci fosse posto per una coppia come loro.

"Tu pensavi solamente al tuo amante," avrebbe precisato Tao Chi'en, che allora avrebbe avuto già i capelli grigi.

"E tu a Lin."

"In Cina si può avere più di una moglie e Lin è sempre stata tollerante."

"E poi ti facevano ribrezzo i miei piedi grandi," l'avrebbe preso in giro.

"È vero," avrebbe replicato lui con la massima serietà.

 

 

A giugno si abbatté un'estate impietosa, le zanzare si moltiplicarono, le serpi uscirono dai loro buchi per passeggiare impunemente e le piante di Tao Chi'en sbocciarono rigogliose come in Cina. Le orde di argonauti continuavano ad arrivare, sempre più numerose. Siccome Sacramento era il porto di accesso, il suo destino non fu quello di dozzine di altri paesi che spuntavano come funghi nei pressi dei giacimenti auriferi, si sviluppavano rapidamente e sparivano all'improvviso non appena si esauriva il minerale di facile estrazione. La città cresceva di minuto in minuto, venivano aperti nuovi spacci e i terreni, che non si regalavano più come all'inizio, venivano venduti ai prezzi salati di San Francisco. Si costituì un abbozzo di governo e frequenti erano le assemblee che deliberavano dettagli amministrativi. Fecero la loro comparsa speculatori, legulei, evangelisti, giocatori di professione, banditi, tenutarie con ragazze di vita e altri araldi del progresso e della civiltà. Di lì passavano le centinaia di uomini infiammati di speranza e ambizione, diretti ai giacimenti, come pure quelli sfiniti e ammalati che facevano ritorno dopo mesi di duro lavoro, pronti a dilapidare i loro guadagni. Il numero dei cinesi aumentava di giorno in giorno e ben presto si contrapposero due bande rivali. I tongs erano clan chiusi, i cui membri si aiutavano reciprocamente come fratelli nelle difficoltà della vita quotidiana e del lavoro, che favorivano però anche corruzione e crimine. Tra i cinesi arrivati da poco c'era un altro zhong yi e con lui Tao Chi'en ebbe modo di trascorrere ore di completa felicità paragonando le terapie e citando Confucio. Gli ricordava Ebanizer Hobbs, perché non si accontentava delle cure tradizionali e cercava anche nuove strade.

"Dobbiamo studiare la medicina dei fan güey, la nostra non e sufficiente," gli diceva, e lui era pienamente d'accordo perché più imparava, più aveva la sensazione sia di non sapere niente, sia che la vita non gli sarebbe bastata per studiare tutto quello che gli mancava.

Eliza mise in piedi una bottega di empanadas che vendeva a peso d'oro, prima ai cileni e poi anche agli yankee che mostrarono fin da subito di gradirle. Iniziò preparandole con carne di vacca, quando poteva comprarla dai ranchero messicani che portavano bestiame rubato da Sonora, ma siccome in genere scarseggiava, le sperimentò con carne di cervo, lepre, oca selvatica, tartaruga, salmone e persino orso. I suoi fedeli clienti consumavano tutto con sommo piacere, perché l'alternativa erano fagioli in scatola e maiale salato, l'invariabile dieta dei minatori. Nessuno disponeva di tempo per cacciare, pescare o cucinare; frutta e verdura non si riusciva a trovarne e il latte era un lusso più raro dello champagne; tuttavia non mancavano farina, strutto e zucchero, e si trovavano anche noci, cioccolato, qualche spezia, pesche e prugne secche. Eliza iniziò a preparare torte e biscotti, che ottennero lo stesso successo delle empanadas, e anche pani, in un forno di terracotta che improvvisò ricordando quello di Mama Fresia. Se riusciva a procurarsi uova e pancetta affiggeva un'insegna in cui annunciava la colazione; allora gli uomini si mettevano in fila pur di sedersi in pieno sole davanti a un tavolo sgangherato. Quelle deliziose vivande, preparate da un cinese sordomuto, ricordavano loro le domeniche in famiglia nelle loro case, così lontane da lì. L'abbondante colazione che prevedeva uova fritte con pancetta, pane appena sfornato, torta di frutta e caffè a volontà, costava tre dollari. Alcuni clienti, emozionati e riconoscenti perché da mesi non assaggiavano niente di simile, depositavano un dollaro supplementare di mancia nel barattolo. Un giorno, a metà estate, Eliza si presentò a Tao Chi'en con i suoi risparmi in mano.

"Con questi possiamo comprare i cavalli e partire," gli annunciò.

"Per dove?"

"Per andare a cercare Joaquin."

"Io non sono interessato a trovarlo. Rimango qui."

"Ma non vuoi conoscere questo paese? Ci sono molte cose da vedere e da imparare, Tao. Mentre io cerco Joaquin, tu puoi acquisire la tua famosa saggezza."

"Le mie piante stanno crescendo e poi non mi piace andare di qua e di là."

"Va bene. Io me ne vado."

"Da sola non arriverai lontano."

"Questo lo vedremo."

Quella notte dormirono ognuno a un'estremità della capanna senza rivolgersi la parola. Il giorno dopo Eliza uscì presto per andare a comprare il necessario per il viaggio, compito non certo facile visto il suo ruolo di muto, e tornò alle quattro del pomeriggio insieme a un cavallo messicano, brutto e pieno di spellature ma forte. Comprò anche degli stivali, due camicie, pantaloni resistenti, guanti di cuoio, un cappello a tesa larga, un paio di sporte di alimenti secchi, un piatto, una tazza e un cucchiaio di latta, un buon coltello d'acciaio, una borraccia per l'acqua, una pistola e una carabina che non sapeva caricare né tanto meno utilizzare. Passò il resto del pomeriggio a organizzare i bagagli e a cucire i gioielli e i soldi rimasti in una fascia di cotone, la stessa che usava per schiacciarsi i seni, sotto la quale portava sempre con sé l'involto di lettere d'amore. Si rassegnò ad abbandonare la valigia con i vestiti, la sottoveste e gli stivaletti che ancora conservava. Con la coperta castigliana improvvisò una sella, proprio come aveva visto tante volte fare in Cile; si tolse i vestiti di Tao Chi'en che aveva indossato per mesi e si provò quelli appena acquistati. Poi affilò il coltello con una striscia di cuoio e si tagliò i capelli all'altezza della nuca. La sua lunga treccia nera rimase per terra come una biscia morta. Si guardò in un frammento di specchio rotto e si ritenne soddisfatta; con il viso sporco e le sopracciglia ingrossate con una linea a carbone, poteva ingannare chiunque. In quel momento arrivò Tao Chi'en, di ritorno da uno degli incontri con l'altro zhong yi, e per un attimo non riconobbe il cowboy armato che aveva invaso la sua proprietà.

"Domani parto, Tao. Grazie di tutto, sei più di un amico, sei un fratello. Mi mancherai..."

Tao Chi'en non rispose. Quando scese la sera lei si sdraiò vesta in un angolo e lui si sedette fuori, nella brezza estiva, a contare le stelle.